Le religioni si chiedono chi abbia creato l’Universo. 

La scienza si interroga su come sia nato e, in subordine, se nell’Universo ci siano altre forme di vita. 

L’Astronomia genetica si domanda se l’Universo sia in sé vita, se cioè è possibile pensare a questo Universo (senza peraltro escludere altri Big Bang e altri Universi) come a un organismo vivo e vitale, di cui la Terra e il Sistema solare non sono che una parte infinitesimale, atomica, della struttura (del tessuto) che lo compone.

Se si accoglie l’ipotesi secondo la quale la nascita dell’Universo non è stato un accadimento accidentale ma, come per le nascite che conosciamo, il frutto di circostanze non casuali ma causali legate all’espressione di una Intenzione in grado di determinarne l’accadimento e di orientarne gli sviluppi nel tempo, la naturale conseguenza è solo una: l’Universo non è solo una creazione: è esso stesso una creatura, un organismo vitale di dimensioni incalcolabili: qualcosa di singolarmente (nel senso di unitario) e ‘specialmente’ fecondato e vivente. E se così stanno le cose, la Terra – che da quell’evento iniziale è derivata – altro non è che una minuscola parte di quell’organismo misterioso che, a quanto pare, è tuttora in espansione (e quindi in crescita). 

Forse è venuto il momento di farsene una ragione.

 

Cose dell'altro mondo

capitolo I

 

 

 

Il rospo, sulla riva dello stagno,

compì di slancio un primo, lungo

salto.

Atterrò goffo e lontano sull'altra sponda, congiungendo così due punti del suo mondo.

Volse curioso lo sguardo e parve soddisfatto di quel volo.

Trascorse un istante, breve e infinito.

Il rospo saltò di nuovo e colse un'altra

meta.

Mancava ancora un balzo,

solamente uno, per realizzare il

sogno.

E il rospo, ridendo, lo compì.

Tornò così, esattamente, al punto di partenza e chiuse, finalmente, il territorio.

Solo stupì, nel calpestare il luogo che lo aveva visto partire e ritornare, vederlo

doppio.

Separato appena, ormai per sempre,

dal tempo trascorso.

 

Quando Hans Joachim Khotstater (1) scrisse questo breve brano, a Vienna nel 1903, lo inserì tra gli studi preparatori di un lavoro intitolato Leggende del bosco e della palude. (2)

Contrariamente a quanto potrebbe lasciare intendere questo titolo, peraltro dichiaratamente provvisorio, non si trattava di scritti e racconti destinati ad arricchire la letteratura per l'infanzia.

Khotstater era raffinato “studioso della mente e dell'intelletto”, come egli stesso amava definirsi, anche se questa auto rappresentazione è in qualche modo riduttiva, rimanendo la sua opera aperta soprattutto alla ricerca, oltre che allo studio, in questa complessa dimensione.

Il bosco e la palude rappresentano quindi l'avventura e il mistero della vita e della natura che l'esistenza accoglie, nutre, abbraccia e, sovente, nasconde. Un mondo, insomma, di sussurri e di vapori, di luci e di ombre mobili (basta un alito di vento per mutare il bosco e le sue ombre, o le acque immobili di uno stagno), di echi e di creature di ogni dimensione, in una dimensione che a tutte si affida per creare equilibrio e armonia. Un mondo di sensi che tuttavia traghetta l'animo oltre la loro percezione, e origina altro, oltre. Un mondo di percezioni che proprio perché continuiamo con crescente ostinazione a trascurare, ci ostiniamo a definire misterioso.

Nella gran parte dei suoi lavori (ed anche negli spazi che nel tempo ha dedicato non solo alla scienza ma anche alla poesia), il tempo e lo spazio, la loro natura, il rapporto tra di essi e la conseguente lettura e interpretazione da parte della mente, della ragione e dello spirito (vedremo poi cosa si debba intendere per queste parole) hanno avuto una collocazione nevralgica e centrale.

In principio, e ce lo indica proprio questo rospo, lo spessore del tempo, il peso del tempo.

Contrariamente all'affermazione corrente e spesso condivisa (verrebbe da dire “ormai divenuta maliziosamente scontata”) per la quale “il tempo non esiste”, Khotstater non si pone il problema della sua esistenza o meno.

Il tempo è.

La questione si sposta quindi su un terreno diverso, su una prospettiva altra rispetto alla sua esistenza o non esistenza. Questa differenza pervade l'intero lavoro di Khotstater e lo caratterizza, ponendolo in una prospettiva peculiare.

Esistere ed essere sono per lui concetti talmente distanti tra loro, da appartenere a sfere di conoscenza e di ricerca affatto differenti.

In un suo scritto di quegli anni Khotstater muove proprio dallo Spirito per spiegare la sua posizione.

Lo Spirito, inteso come luogo meta/mentale, come ambito (e azione) della coscienza oltre la mente, oltre l'intelletto, oltre la ragione, semplicemente oltre ciò che si intende come esistente, non ha motivo né natura per essere posto nella dimensione dell'esistenza o della non esistenza. Proprio perché è oltre e altro rispetto a ciò che è concepito e affermato come esistente.

Lo Spirito è.

Addirittura, in alcuni appunti, si trova scritto: lo Spirito '.' ; o anche solo: '.'. Indefinibile dal linguaggio intellettuale consueto.

L'esistenza, la non esistenza, rientrano nell'ambito verrebbe da dire scientifico e sperimentale di ciò che richiede dimostrazione, verifica, misura. E' una dimensione duale: qualcosa esiste oppure non esiste. Semplicemente. E al centro di questa dualità, diremmo protagonista della dualità, c’è – appunto – qualcosa. Ma se noi considerassimo altro da qualcosa ?

Se il tempo, lo spazio, lo spirito non fossero riportabili a qualcosa?

'.' è un dato di percezione, non di conoscenza, e come tale è di differente natura. O forse è meglio considerarlo privo di natura così come questo termine è inteso correntemente, e quindi privo anche di una natura differente.

Si potrebbe dire, per grossolana ma efficace approssimazione, che '.' è ciò che nel mondo dei numeri – un mondo in fondo duale fatto di numeri positivi e negativi, di valori pari e valori dispari, e così via – è lo '0'.

Il problema dello '0', il suo luogo, la sua natura, la sua caratteristica e la sua intrinseca provocazione, non è quello di esistere o non esistere.

Si potrebbe dire che lo '0' esiste ma anche, al tempo stesso, che non esiste. Che non ha valore pur avendo una propria forma di valore. Può forse manifestare un valore, ma non per questo esserlo.

E’ un simbolo grafico che serve per avere un rapporto rappresentativo, per evocare una rappresentazione, esattamente come accade per '.'. Ma in questa rappresentazione non è detto che ci sia qualcosa di esistente. E neppure qualcosa di non esistente.

0 è'.

Non è pari né dispari, non è positivo né negativo, non è reale né irreale, non è esistente e neppure non esistente. E ancora, non è non pari né non dispari. Non è non positivo né non negativo, e così via. Da un punto di vista emozionale una seria considerazione dello “0” è fonte di vertigine poiché si affaccia (ci affaccia) su un mondo che non è il nostro mondo. E' cosa di un altro mondo.

Con tutte le differenze del caso, e con tutte le maggiori complessità e sfumature del caso, anche “.” è “cosa” di un altro mondo.

Come tale, solo se ci esponiamo a fondo, solo se ci mettiamo in gioco su questo abisso tutt’altro che virtuale, lo percepiamo per ciò che è, e non più per ciò con cui comunemente pensiamo (se ci pensiamo) di avere a che fare.

Di più, e proprio perché di un mondo altro, '.' riferisce a sistemi di intercettazione della realtà che sono peculiari alla sua natura, e che per questo hanno a che fare con una realtà altra, dove è il medesimo concetto e significato di realtà ad essere ineffabilmente altro da quello comunemente inteso.

Da qui deriva l'interesse intenso di  Khotstater per quella dimensione genericamente identificata e classificata come “follia”, ma che altro non è se non un possibile altro mondo, comprensibile solo a chi ha il coraggio, la determinazione, la ventura (o la sventura) di entrarvi e farne parte.

“Il racconto di un individuo alienato”, scrive a questo proposito Khotstater, “risulta sempre perfettamente scorretto, nella sua incomprensibile follia, per qualsiasi individuo normale che lo ascolti. Il racconto di un individuo normale risulta sempre perfettamente corretto, nella sua incomprensibile lucidità, per qualsiasi individuo alienato che lo ascolti. E’ quindi difficile stabilire, da un punto di vista neutrale, chi abbia tra loro maggiore capacità di comprensione”(3).

 

In buona sostanza, ciò che è ha le proprie regole di esplorazione, di comprensione, di lettura, di interpretazione. E sono regole affatto differenti da quelle che appartengono al mondo dell'esistere. Perché anche ciò che non è, in quanto tale, è. Mentre non è analogamente sostenibile – proprio perché appartiene a un mondo e a un linguaggio differenti – che ciò che non esiste, esiste.

 

“Il nocciolo del problema”, si legge in un altro suo scritto, “è riconducibile tutto alla capacità o meno di rendersi disponibili ad affrontare le differenti dimensioni, i diversi piani che (tra infinite dimensioni e infiniti piani) la natura umana – e la natura più in generale – propone come possibili e probabili alla percezione di chi sappia attraversare il confine e uscire dalla dimensione perimetrata dalla mente, dall'intelletto, dalla ragione, che nel tempo hanno preso il governo della vita umana e strettamente delimitato il suo territorio, meglio dire il suo spazio, d’azione” (4).

Come dire: questa mente, questo intelletto, questa ragione sono gli unici “spazi” possibili? E soprattutto, sono gli unici tavoli di lavoro, l’unica lingua che può essere parlata, l’unico libro che può essere letto? E se la risposta è negativa, che capacità (e che possibilità) abbiamo di esplorare questi altri territori?

La domanda, si badi bene, non si pone solo relativamente ai valori e ai significati (morali, sociali, civili, eccetera) che questa mente, questo intelletto, questa ragione hanno elaborato, fissato, modificato, scritto e riscritto fino a giungere ai risultati attuali. Si porrebbe, e si pone, per qualsiasi valore, significato o altro che è stato elaborato e prodotto in ogni tempo. Considerato soprattutto il fatto che per Hans Joachim Khotstater non è affatto scontato (come non lo era per alcuni tra i suoi contemporanei) che l’essere umano stia percorrendo nel tempo e “per definizione” una via evolutiva e non, al contrario, un tragitto che evidenzia molti aspetti regressivi.

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