Le religioni si chiedono chi abbia creato l’Universo.
La scienza si interroga su come sia nato e, in subordine, se nell’Universo ci siano altre forme di vita.
L’Astronomia genetica si domanda se l’Universo sia in sé vita, se cioè è possibile pensare a questo Universo (senza peraltro escludere altri Big Bang e altri Universi) come a un organismo vivo e vitale, di cui la Terra e il Sistema solare non sono che una parte infinitesimale, atomica, della struttura (del tessuto) che lo compone.
Se si accoglie l’ipotesi secondo la quale la nascita dell’Universo non è stato un accadimento accidentale ma, come per le nascite che conosciamo, il frutto di circostanze non casuali ma causali legate all’espressione di una Intenzione in grado di determinarne l’accadimento e di orientarne gli sviluppi nel tempo, la naturale conseguenza è solo una: l’Universo non è solo una creazione: è esso stesso una creatura, un organismo vitale di dimensioni incalcolabili: qualcosa di singolarmente (nel senso di unitario) e ‘specialmente’ fecondato e vivente. E se così stanno le cose, la Terra – che da quell’evento iniziale è derivata – altro non è che una minuscola parte di quell’organismo misterioso che, a quanto pare, è tuttora in espansione (e quindi in crescita).
Forse è venuto il momento di farsene una ragione.
CAPITOLO I
Possibile che fossero davvero così diversi? Tutte le volte che William (William Clouster, inglese, 32 anni, professore di cosmologia e astrofisica alla US, Università del Sussex) lasciava il villaggio di Falmer, nella regione di Brighton and Hove, ed emergeva da una qualsiasi delle uscite della metropolitana di Parigi dopo il breve volo da Londra, non poteva fare a meno di osservare – lui che di cieli se ne intendeva – quanto fosse profondamente differente quello francese da quello inglese. Non era un problema di bellezza.
Tutti i cieli sono belli, pensava. Nebbiosi o cristallini, rannuvolati o sereni, diurni o notturni sanno comunque incantare chi ha la capacità di guardare in alto. Non era quello il tema. Il fatto, pensava William, era che in ogni loro declinazione i cieli di Gran Bretagna e di Francia restavano due mondi separati e immediatamente riconoscibili, con diversi tratti e un proprio carattere, differenti proprio come un londinese da un parigino (e naturalmente come una londinese da una parigina, ma qui la differenza – a suo giudizio – diventava un abisso).
Quel lunedì di fine gennaio William era sbucato all’aperto dai tunnel della Metro numero sette alla fermata di Les Gobelins, sulla strada che porta lo stesso nome. E il cielo che gli si presentò a metà mattina era inequivocabilmente, vivacemente, splendidamente parigino.
L’inverno si manteneva mite, come ormai accadeva da alcuni anni, ma un fresco vento da nord spazzava i boulevard e ripuliva la città dalle scorie di un traffico intenso e caotico come sempre.
“Eccomi qua”, mormorò William incamminandosi verso Boulevard Arago, e sorrise senza una ragione. Gli piaceva quel chilometro abbondante di passeggiata per raggiungere al capo opposto della via, nella direzione delle antiche Catacombe di Parigi, la sede dell’Istituto di Astrofisica (quello che familiarmente nel mondo accademico e scientifico era chiamato IAP), costruito proprio accanto all’Osservatorio della città.
Percorreva quella strada un paio di volte nell’arco dell’anno, quando era invitato in Francia per tenere il martedì mattina alle 11 in punto, nella sala dei seminari dello IAP intitolata a Evry Léon Schatzman, una relazione (allo IAP la chiamavano tradizionalmente lezione) sulle più recenti ricerche in corso nel suo Istituto oltre Manica.
L’Università del Sussex non poteva certo competere in notorietà e prestigio nei campi dell’Astronomia e dell’Astrofisica con luoghi sacri come Cambridge e Oxford, ma William aveva in pieno sposato il motto del suo ateneo: Excite your imagination. Quell’invito era subito entrato a pieno titolo tra le linee guida del suo lavoro e con l’originalità delle sue intuizioni e il rigore dei suoi studi aveva raggiunto in breve tempo una certa notorietà nell’ambiente scientifico e accademico non solo britannico.
Anche questa volta, lungo il cammino, avrebbe fatto solo una rapida deviazione in Rue del Cordelières per lasciare il bagaglio, un trolley leggero con lo stretto necessario per un soggiorno di quattro notti, all’hotel Aladin, un nome improbabile per un tre stelle di rara tristezza, con stanze piccole e sciatte e bagni di minuscole dimensioni. Ma Aladin, pensava William, era in una posizione comoda e il personale, a partire dalla signora attempata che presidiava il vecchio e acciaccato banco della reception, cortese e disponibile.
Si era fermato il tempo strettamente necessario alla registrazione e gli fece piacere essere riconosciuto e salutato come un ospite abituale nonostante le sue rare presenze. Il bagaglio l’avrebbe trovato in camera quando la camera, due ore più tardi, sarebbe stata pronta ad accoglierlo. Poi, di nuovo, aveva imboccato Boulevard Arago portando con sé solo la borsa del computer, che di regola non abbandonava mai.
Quel tratto di strada, che sul lato sinistro costeggia per qualche centinaio di metri il carcere della Santé, aveva per William quasi il sapore di un pellegrinaggio. Fin dai tempi degli studi all’università aveva maturato una grande stima e una profonda devozione per François Jean Dominique Arago, matematico, fisico e astronomo prima ancora di essere un uomo politico di primissimo piano a metà ‘800. Arrivato nella capitale dal villaggio di Estagel, nei pressi di Perpignano, sui Pirenei Orientali, era diventato Astronomo dell’Osservatorio nazionale francese su nomina imperiale di Napoleone Bonaparte.
Arago: con i suoi studi sulla pressione e la velocità del suono, sul magnetismo e la magnetizzazione dei corpi, per non parlare delle teorie ottiche condivise con l’ingegnere e fisico Augustin-Jean Fresnel sulle onde di luce e la polarizzazione rotatoria, o della scoperta della connessione tra aurora boreale e campo magnetico, e di molto altro ancora. Arago: che con i 135 medaglioni che portano inciso il suo nome incastonati nelle strade di Parigi dal Palais Royal ai Jardin du Luxembourg, dal Lungosenna all’interno dello stesso Louvre nelle ali dedicate a Richelieu e Denon, non segna solo il tracciato dell’antico Meridiano di Parigi, ma è diventato il simbolo stesso di come la scienza, la scoperta, l’intuizione, siano un percorso lungo, complesso, audace. E misterioso.
A questo William pensava ogni volta che percorreva quel lungo viale. E non ci fu nulla di diverso neppure quella mattina, quando infine varcò, al numero 98 bis, la soglia dello IAP e raggiunse al primo piano i locali della segreteria. Prese con la giovane responsabile addetta alle manifestazioni gli accordi necessari per il giorno seguente, confermò il tema della relazione che avrebbe tenuto e il tempo che ragionevolmente avrebbe preso (di regola occorreva restare entro i quarantacinque minuti), lasciò una copia del testo-guida a cui si sarebbe attenuto e che sarebbe stato successivamente pubblicato e archiviato a cura dell’Istituto, confermò la sua presenza alla cena informale che si sarebbe tenuta quella sera, come da tradizione, con alcune colleghe e colleghi dello IAP. In mattinata, gli fu detto, avrebbe ricevuto un messaggio con il luogo e l’ora precisi.
Le persone che si erano iscritte per assistere alla conferenza della mattina successiva erano già un centinaio. William lo apprese con soddisfazione. Subito dopo le festività natalizie non credeva possibile un tale interesse per un tema che, tutto sommato, si proponeva con un titolo piuttosto ostico: Da Harmonices Mundi a Voyager, da Keplero alla Nasa – I suoni dell’Universo.
Marie-Christine (Marie-Christine Dubois, francese, 33 anni, ricercatrice presso l’Istituto Gustave-Roussy di VilleJuif a Parigi), era uscita dal suo appartamento, al numero 14 di Cité du Midi, nel XVIII arrondissement, quello stesso lunedì di gennaio pochi minuti dopo le nove. La via era deserta come sempre: una graziosa stradina breve e senza uscita, affacciata su Boulevard de Clichy, a pochi passi da place Pigalle.
Contessa, la gatta adottata tempo addietro dai vicini (un gruppo di suonatori di jazz che avevano anche aperto nella via una scuola di musica) e conosciuta da tutti gli abitanti della zona per il suo nobile mantello bianco, la salutò con un lungo miagolio dal coperchio di un bidone della spazzatura.
Tra i negozi ancora chiusi e specializzati in tutto quello che può avere a che fare con l’esplorazione della dimensione porno (del resto è proprio lì l’area peculiarmente a luci rosse di Montmartre) e ristoranti etnici che in quell’ora avrebbero iniziato a rassettarsi dopo i consueti disordini della serata precedente, quella parte di Parigi viveva soprattutto la notte. Lungo quei marciapiedi la capitale esprimeva una fusion inquieta e difficilmente catalogabile tra promiscuità sessuale, piccolo spaccio, musica sperimentale, ordinaria trasgressione in tutto ciò che fosse visibile, udibile e ostentabile (capelli, abiti, gesti, parole), gruppi turistici diretti all’immancabile appuntamento con il Moulin Rouge. Un’ansia di diversità parigina, insomma, che affondava al calare della sera in un cocktail di nostalgia inconscia del passato e manifestazione di insofferenza e di rifiuto ora ribelle ora annoiato del presente.
Marie-Christine a quella quotidiana sbornia non partecipava, ma amava quella sua piccola strada che sembrava di paese, messa di traverso con le sue casette basse al grande e caotico boulevard, con i rampicanti che la riempivano di fiori e di verde per gran parte dell’anno e la totale assenza del traffico in perenne scorrimento pochi metri più in là. E lì aveva deciso di abitare.
Quel giorno avrebbe lavorato di pomeriggio. Dei trentasei gruppi di lavoro attivi all’Istituto, uno dei più importanti Centri europei per la cura, la ricerca e l’insegnamento in campo oncologico, il suo era uno dei meno noti. Anziché occuparsi infatti di contrasto diretto alla malattia, la sua equipe indagava su fenomeni apparentemente più “astratti” e di complessa correlazione con l’evento oncologico. Le cellule tumorali esprimevano vibrazioni, campi elettromagnetici, segnali energetici peculiari che le potevano rendere identificabili prima e al di fuori delle normali procedure di analisi? E come poteva essere possibile rilevare tali eventuali anomalie rispetto alle manifestazioni consuete di “normalità”? Quali erano le diversità ancora occulte che avrebbero potuto consentire migliori e più efficaci procedure di prevenzione? Quale linguaggio “segreto” era a loro riconducibile, se mai questo linguaggio fosse esistito e fosse stato interpretato? Aveva deciso di impegnare quella mattina di sole per visitare la mostra dedicata a Fatima Haddad ‘Baya’ presso l’Istituto del Mondo Arabo, il grande palazzo sulla riva sinistra della Senna, accanto agli edifici della Sorbona.
“Baya è stata la regina algerina del surrealismo”, le aveva detto Adéle, sua amica e collega al Gustave-Roussy, figlia di genitori pied noir e nata proprio ad Algeri. “Una ragazzina che con il suo talento ha influenzato artisti come Picasso, Braques, Breton. Dobbiamo assolutamente andare”. Così si erano date appuntamento di buon’ora. Avrebbero fatto colazione sull’Ile Saint-Louis e sarebbero poi andate alla scoperta di Baya.
Ancora non sapevano che prima dell’ora di pranzo entrambe sarebbero state letteralmente conquistate da quelle opere coloratissime, così originali e vive.